Nord, sud, ovest, est..

Citazione veramente “colta” per il titolo dell’articolo, vero? 😀
Ok, torniamo seri.. 😉
Era da un po’ di tempo che mi balenava in testa l’idea di prendere un telefono rugged.. un device da usare senza troppe preoccupazioni, che se te lo scordi in tasca quando piove se ne frega, che se ti cade non si sbriciola in mille pezzi, e via dicendo.
Alla fine l’ho preso davvero, un Blackview BV-6000.
Non sto a dilungarmi sulle caratteristiche, non è questa la sede, ma vi basti sapere che funziona veramente bene.
Appena ho avuto il telefono in mano, automaticamente è scattato il pensiero “perché non usarlo anche in moto, ogni tanto, magari quando non voglio portarmi il Garmin?”.
Perché l’idea di avere un device tuttofare, un solo attrezzo da portarsi dietro, alla fine mi è sempre piaciuta, senza contare la versatilità di poter scegliere fra la moltitudine di software di navigazione.
All’inizio mi sono affidato ad una soluzione “pronta”, ed ho acquistato un adattatore x-grip della ram-mount (uso il loro sistema a sfera come supporto per il navigatore da anni).
Il telefono si è comportato decisamente bene, molto meno l’adattatore in questione che mi ha soddisfatto solo in parte.. i gommini cadono pericolosamente vicini ai tasti del telefono (bisogna posizionarlo al millimetro, sennò si premono) e quando le aste sono parzialmente chiuse con il telefono inserito il tutto (per il modo in cui è costruito l’adattatore) rimane libero di ruotare di qualche grado.. a meno di non bloccare il tutto con quella specie di retina in silicone che loro chiamano “tether”, fornita in dotazione, ma tutt’altro che immediata nell’utilizzo.
Ho provato a farmi una piastrina da inserire nell’asola per bloccarlo, ed ha funzionato, ma speravo in qualcosa di più efficace, visto che per togliere il telefono bisogna sfilare ogni volta la piastrina altrimenti non si aprono le aste..
Così ho iniziato a costruirmi un supporto con materiali recuperati in garage e poco altro.
Son partito dalla cosa facile, ovvero la base, ricavata da un pezzo di resistente lexan da 5mm di spessore.
Nella parte inferiore della base ho fissato (utilizzando viti TPSE in modo che non sporgessero una volta svasate le sedi) una barra di alluminio con profilo ad “L” (si trovano al brico) che fa da appoggio.
A destra della base ho fissato un’altra barra, ma con il bordo superiore leggermente ripiegato verso l’interno (in modo da non permettere al telefono di uscire) e con un’asola per far passare il cavo di alimentazione.
Rimaneva il problema di come chiudere il tutto.
Volevo qualcosa di solido ma facilmente apribile, per togliere e mettere il telefono al volo, senza viti da allentare o cose strane.
Gironzolando nelle corsie del brico, mi è venuta l’idea che mancava.
Ovvero usare una cerniera da sportello.
Ce ne sono di mille tipi, è bastato sceglierne una della grandezza e con la forma giusta, et voila: avevo la chiusura per il mio supporto!
La base della cerniera, che di solito in casa va sul mobile, l’ho imbullonata alla base del supporto, e alla parte “mobile” ho fissato un’altra lastrina di alluminio, ssempre col bordo leggermente piegato verso l’interno, e con un labbrino rialzato per fare da appiglio per agevolare l’apertura.
Ovviamente il tutto è stato foderato con della gomma antiscivolo, che assorbe anche le vibrazioni, e sull’anta di chiusura è stato applicato uno strato di gommapiuma molto spesso che blocca il telefono.

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Particolare della gommapiuma inserita sull’anta di chiusura.

Nelle foto che seguono, scattate prima di applicare l’antiscivolo, si vede meglio com’è costruito il tutto.

 

Nel video invece il sistema di chiusura.. notate il rassicurante “clack” della cerniera quando la si chiude.. 🙂

Ovviamente per fissare il tutto alla moto ho dovuto comprare una “pallina” della ram-mount, in modo da rendere il tutto intercambiabile col supporto del Garmin.
La prova su strada è stata una bella soddisfazione.
Il telefono è stabilissimo, ho dovuto solo apportare un paio di modifiche per evitare che in seguito a contraccolpi particolarmente “marcati” (es. atterrando dalle impennate ^_^ ) lo smartphone si spostasse leggermente verso l’alto..
Appena avrò voglia probabilmente cercherò di migliorarlo ulteriormente (per esempio sagomando meglio la staffa a destra, dall’aspetto un po’ troppo massiccio, o cercando di aggiungere una chiusura a chiave, anche se la ritengo inutile), ma devo dire che per esser fatto in economia ha superato brillantemente le mie aspettative 🙂

(almost) ready to go! :)

Ebbene si, anche quest’anno siamo arrivati al momento della partenza.
Purtroppo, per motivi su cui non mi dilungo, non ci sarà il “viaggione”, quello da millemila chilometri, quello che ti porta lontano ad assaporare luoghi, atmosfere e usanze spesso molto diverse dalle nostre.
Visti i pochi giorni a disposizione abbiamo deciso di restare relativamente vicino e concederci un giro tra Francia, Svizzera e Austria, cercando comunque di toccare località che non abbiamo mai visto ma lasciando anche un po’ di spazio per l’improvvisazione dell’ultimo momento.
E magari per passare anche a salutare qualche amico 🙂
Ovviamente partiremo con tutto il necessaire per campeggiare, visto che siamo in un periodo in cui non è così improbabile ricevere dei salassi assurdi per mangiare e dormire.
In pratica cambieranno le distanze, ma non lo spirito 🙂
E, come in ogni partenza che si rispetti, nei giorni precedenti c’è il “rito” della preparazione del mezzo e dell’attrezzatura.
Perché il mio bagaglio lo preparo in 5 minuti, il resto necessita di qualche attenzione in più.
E allora ti metti a pensare a quello che ti serve, a capire come limitare le cose da portare pur restando pronto a (quasi) tutto, come ottimizzarne la disposizione..
E passi due giorni a recuperare alimentatori, cavetti, adattatori, riempire la tanichetta dell’olio (una prassi comune per molti possessori di LC8), cercare negli scatoloni quelle vecchie pasticche dei freni usurate a metà che “le porto, non si sa mai”, avvolgere piccoli rocchetti di nastro americano, e via dicendo.
Per poi passare alla fase “tetris”, ovvero come incastrare tutto l’occorrente per il campeggio nella sacca a rotolo, cercando la migliore sistemazione possibile (che ovviamente sarà tale solo per il primo giorno poi regnerà il caos, e lo sai benissimo ma va bene così).
I preparativi per un viaggio, che sia breve o verso l’altra parte del mondo, sono sempre un momento magico, che ti carica di adrenalina e di aspettative, è un rito di passaggio che ti traghetta dalla routine all’anarchia, che ti prepara a tuffarti in una grande vasca piena di immagini, voci, rumori e profumi nuovi, in cui immergerti totalmente per assorbire tutto quello che puoi e portarlo con te.
Una terapia rigenerante per il corpo e, soprattutto, per l’anima.
Lasciatevi andare e godetevi il viaggio, qualunque esso sia, ma anche la sua preparazione.
E assaporateli come se fossero un buon rum, senza fretta, per carpirne tutte le sfumature.
Ci rileggiamo fra qualche giorno, vado a buttare due stracci nella borsa.. 😉

“Vento d’estate” (ma non troppo!)

Da un po’ di tempo mi balenava in testa l’idea di aggiungere un cupolino alla Beta Alp della mia ragazza, in modo da renderla più confortevole in viaggio.
La piccola Alp nasce praticamente senza nessun tipo di protezione aerodinamica (e va benissimo così), ma purtroppo per chi soffre di dolorini alla cervicale stare molte ore in sella senza alcun riparo dal vento può essere un problema.
Nell’aftermarket non esiste niente di pronto e sicuramente si riesce a recuperare qualcosa di adattabile, il problema è che questi pezzetti di plastica li fanno pagare a peso d’oro (cosa che non ci piace).
Ovviamente il vero cantinaro in questi casi si mette all’opera per risolvere il problema con quello che ha in garage (di solito scarti dei più svariati materiali).
E così è stato.
Tramontata l’ipotesi di modellare del policarbonato (dopo qualche tentativo parziale poco riuscito) e relegata la lastra di alluminio come ultima opzione, ho deciso di realizzarlo in vetroresina utilizzando come base di partenza un cupolino rally della mia Adventure.
Visto che avrei dovuto usarne solo una parte, per via delle dimensioni, la cosa si è rivelata abbastanza semplice.
Dopo aver rivestito l’interno del cupolino usato come “stampo” con del nastro da pacchi, ho steso il primo strato di resina e l’ho lasciato asciugare per poi procedere con il secondo strato.
Asciugato anche questo, ho separato delicatamente le due parti e aggiunto un terzo strato di vetroresina sul manufatto, per irrobustirlo.
A questo punto ho cercato di trovare una forma che potesse deviare efficacemente l’aria, basandomi su sofisticatissime simulazioni al computer (no, scherzo, ho semplicemente improvvisato regolandomi con l’esperienza ;D ), ho fatto la sagoma col cartone, l’ho disegnata sul cupolino col pennarello e poi l’ho ritagliata con il Dremel.


Una volta ottenuta la forma defnitiva, per fare un lavoro perfetto sarebbe servito il gelcoat per uniformare la superficie  prima di procedere alla verniciatura.
Ma siccome siamo cantinari mannari e la perfezione la lasciamo agli altri, ho semplicemente stuccato il tutto (con l’apposito stucco per vetroresina) per poi “lisciarlo” con una piccola levigatrice (producendo una quantità di polvere inenarrabile, usate la mascherina!).
La stuccatura va ripetuta nei punti più ostici.
DSC_0041Quando il pezzo assume un bell’aspetto (apparentemente), si può pulire con acquaragia per poi procedere alla verniciatura. E scoprire, alla prima passata di spray, che la superficie non è così liscia come sembrava e l’aspetto non è poi così bello, visto che la vernice evidenzia impietosamente le imperfezioni.
Ma pazienza, il risultato è più “artigianale” 🙂
Con tre passate di spray la pratica “verniciatura” si può considerare archiviata.

Restava da trovare il modo di fissarlo, possibilmente senza forare la plastica originale.
Ho risolto sfruttando, per la parte inferiore, le “alette” presenti sopra al faro della Beta, che ho utilizzato per infilarci due ganci sagomati molto vagamente a forma di “S” (coperti di guaina termorestringente per non graffiare) e piazzando una staffa di alluminio nella parte superiore, ancorata alla mascherina originale con un sistema già usato in altre occasioni, ovvero due piastrine gommate all’interno e serrate da una vite attorno al bordo su cui ancorarsi.
Il risultato è molto robusto e, all’occorrenza, smontabile in 10 secondi netti.

Il responso è stato decisamente positivo, l’aria arriva senza troppa pressione nella zona del collo (che in questa stagione non da fastidio) ma il casco rimane completamente isolato, senza la minima turbolenza.
Lo scorso weekend abbiamo percorso circa 700km e la “pilotina” è rimasta veramente soddisfatta (e la sua cervicale pure).
Per essere il primo prototipo, pur da rifinire, migliorare ed affinare (soprattutto nella forma della parte inferiore), possiamo essere contenti 🙂
Intanto lo usiamo così, poi più avanti ci lavorerò.. 😉

Ruota, trasformazione!

Quando comprai la KTM Adventure nel 2010, una delle mie più grosse perplessità riguardava il fatto che le ruote avessero la camera d’aria.
Intendiamoci, non ho nulla contro la camera d’aria in se, quando usata nel giusto contesto e con moto leggere.
Ma una moto che in assetto da viaggio (con borse, valigie e ammenicoli vari) e con due persone sopra passa agevolmente i 400 chili, secondo me non dovrebbe appoggiarsi su qualcosa che, in caso di foratura, perde pressione di colpo o quasi.
Magari sarà solo una fisima, ma tant’è..
Oltre alla questione sicurezza, c’è da considerare anche la comodità e velocità nella riparazione di eventuali forature.
Con la camera d’aria occorre avere dietro delle leve (e piuttosto robuste), la camera di ricambio, un po’ di toppini che non si sa mai, e c’è da smadonnare assai per cambiarla.
Col tubeless la vita è decisamente più semplice, basta un piccolo kit con i “funghetti” e qualche cartuccia di aria compressa ed in 5 minuti si è pronti a ripartire.
Per farla breve, in autunno smontai entrambe le ruote e le inviai ad una ditta che effettuava la modifica per rendere tubeless i cerchi originali, ad un prezzo piuttosto onesto.
L’azienda in questione è la Bartubeless di Stefano Bassi.

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L’ottimo stato del polimero utilizzato per sigillare dopo oltre 80.000km..

Con quella modifica ho percorso, oltre a un bel po’ di fuoristrada, più 80.000km in giro per l’Europa senza riscontrare il minimo problema, nemmeno una minuscola perdita di pressione.
Anzi, essendo il peso del polimero speciale utilizzato per sigillare il cerchio inferiore a quello delle camere d’aria, si ottengono anche benefici tangibili nella guida. La ruota è una massa non sospesa e quindi diminuendone il peso si riduce molto l’inerzia in gioco, a tutto vantaggio della maneggevolezza (non solo, ma è l’effetto maggiormente avvertibile).
Purtroppo, mentre andavo all’Isola d’Elba per il weekend di Pasqua, lungo il tragitto di andata (una strada mai percorsa in mezzo alle colline, che sulla cartina sembrava carina ed invitante e all’atto pratico si è rivelata rovinata come Baghdad dopo i bombardamenti) ho preso in piena curva una buca profonda almeno 15cm, piegando il cerchio.
Nonostante le amorevoli cure che gli ho dedicato per raddrizzarlo (leggasi: “copiose mazzate con il martello di nylon”)  nei giorni successivi ha continuato, seppur poco, a far perdere pressione al pneumatico.

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I raggi originali con la cromatura quasi completamente staccata..

Visto che il cerchio era comunque un po’ “vissuto” e i raggi erano rovinati (pigro-me che non li ho cambiati quando erano in garanzia), ho preso la palla al balzo ed ho deciso di fare un regalino alla Kappona.
Bartubeless, a cui avevo fatto modificare i cerchi quasi 6 anni fa (sono in attività dal 2006) adesso ha in catalogo un canale specifico per maxienduro, prodotto dalla Fa-Ba, con caratteristiche piuttosto interessanti: è realizzato in lega d’alluminio ad alta resistenza (l’originale è molle come il burro) ed è munito di bordo antistallonamento, che permette di viaggiare con pressioni inferiori ad 1bar senza il rischio che il pneumatico esca dal cerchio.
Oltre ad essere utile in fuoristrada, è una sicurezza ulteriore in caso di foratura.
Inoltre ha una raggiatura diversa (così come diversi nei materiali sono i raggi stessi che possono essere installati al posto degli originali) che permette di ottenere una ruota con una elasticità maggiore.

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..perché la delicatezza è tutto.

Ho quindi deciso di fare il servizio completo: ho staccato il mozzo dalla vecchia ruota (segando brutalmente i raggi con una moletta), l’ho pulito e l’ho spedito a loro, che ci hanno messo il resto 🙂
Nelle due foto che seguono potete vedere il risultato.

Alla guida il nuovo cerchio sembra (almeno in fuoristrada e confrontato a parità di taratura delle sospensioni) gestire meglio le asperità, per via della migliore elasticità data dalla nuova raggiatura, migliorando la direzionalità e la risposta dell’avantreno. O almeno questa è stata la sensazione nei primi test.
Avendo già abbondantemente sperimentato la qualità del prodotto, vi posso dire senza timore di smentita che si tratta del migliore investimento che possiate fare sulla vostra moto.
Ah, so che ve lo state chiedendo, quindi vi dico subito che è possibile registrare i raggi sena problemi (il nipplo è libero di ruotare nella resina), in caso di grosso danno è possibile comunque installare una camera d’aria (basta svitare la valvola), e si possono sostituire raggi danneggiati (la procedura è descritta sul sito).

Per altre informazioni, curiosità, prezzi e preventivi, il sito lo trovate qui: http://www.bartubeless.it/
Sono competenti, disponibili e professionali, e la qualità dei loro lavori è altissima (non a caso danno 4 anni di garanzia sulla modifica).

Engine (re)start!

Tre mesi.
Tre lunghissimi mesi senza poter toccare la moto.
L’ultima volta che l’ho usata è stato il 20 dicembre ed era una bellissima e tiepida giornata di sole.
Ho quasi rischiato di rimanere bloccato in un immenso campo d’erba bagnata e fanghiglia, quel giorno, ma sorvoliamo.
Tre giorni dopo, il maledetto menisco mi ha abbandonato.
Da lì, una lunga attesa, prima per poter fare la risonanza, che ha avuto come esito la necessità di operare, poi per poter fare l’intervento.
E ancora, dopo l’intervento, l’attesa per poter avere di nuovo il ginocchio operativo.
Che poi io in moto ci sarei anche andato, mentre aspettavo di operarmi, ma il chirurgo mi ha scoraggiato facendomi notare che sussisteva ancora il pericolo di ritrovarmi con la gamba bloccata (nel mio immaginario il menisco era rotto, punto, non gli poteva mica succedere altro).. ottimo argomento per farmi cambiare idea.
Adesso il ginocchio sta migliorando, la fisioterapia in palestra sta dando i sui frutti, il medico mi ha dato l’ok (si, insomma.. più o meno.. ha sentenziato “tanto fai come ti pare”, io lo prendo per un si), e quindi credo a breve potrò montare di nuovo in sella.
E così, oggi, ho deciso di mettere in moto la bestia.
Non l’ho fatto prima, perché l’idea di accenderla e poi non poterla usare per un mese ancora mi avrebbe fatto troppo male.
Ma oggi era il momento giusto.
Ho girato la chiave un paio di volte per far caricare bene la pompa della benzina, ho lasciato un minuto i fari accesi per poter riattivare la batteria al litio dopo il letargo, e ho premuto il magico bottoncino.
Il motore ha girato per un attimo senza accendersi, come previsto.
Al secondo tentativo la batteria si era “risvegliata” e il bicilindrico ha iniziato a cantare senza esitazioni, col suo vocione cupo e possente.
Mi son guardato nello specchietto, quasi commosso, ed ho visto riflesso un enorme sorriso a 32 denti, il sorriso delle grandi occasioni, quello di quando fai qualcosa di speciale.
Perché il significato del premere quel pulsantino oggi, per me, è quello del ritorno alla normalità, del poter ricominciare a fare ciò che amo di più.
Del rimettersi in moto, in ogni senso.

What’s in my (big) bag?

Qualche tempo fa, in un lunghissimo thread su ADVrider dal titolo “let’s see a picture of your camping setup and how it all fits on your bike… please” avevo postato un paio di foto della mia Adventure in assetto da viaggio, assetto che comprende praticamente tutto il necessaire per campeggiare e per cucinare in maniera indipendente (e pure per consumare degnamente il lauto pasto).
Qualche membro del forum rimase stupito e mi disse che era impossibile portare così tanta roba in così poco spazio (loro sò ammerigani, sò spreconi, sò abituati alle robe grosse), e così feci una spiegazione dettagliata.
Visto che al momento sono ancora intento a smaltire i postumi di un’operazione al menisco e in moto non ci posso andare, ne approfitto per raccontare anche a voi cosa c’è nelle mie borse quando affronto un viaggio in coppia, in particolare nella grossa sacca a rotolo legata sul portapacchi.low_res-1975
Quella è la borsa dell’attrezzatura da campeggio.
Cosa contiene?
Ecco una lista piuttosto accurata..

-Tenda 3 posti (per stare comodi in due)
-due sacchi a pelo estivi
-due liner (seta o altro materiale)
-due materassini gonfiabili
-due cuscini
-due seggiole/sgabelli
-2 pentole complete di coperchio, piatti, bicchieri, posate
-Sale, olio, spezie varie, accendino e altre cosette per la cucina
-Fornello multicombustibile
-Martello per i picchetti
-doccia portatile da 10 litri (utile anche come contenitore per l’acqua)
-qualche busta di cibo liofilizzato per emergenze/pigrizia 🙂

Com’è possibile far stare tutto in una borsa da 50 litri?
Semplice, servono cose selezionate piuttosto accuratamente.
Iniziamo dalla scelta della tenda: come accennato sopra, per stare comodi in due con i relativi bagagli serve una tenda da tre posti, e deve essere facile da montare e smontare, altrimenti facendo camping itinerante dopo tre giorni la maledirete in svariati idiomi.
Il mercato offre infinite possibilità, c’è da perderci un po’ di tempo, ma alla fine restringendo la scelta a quelle con delle dimensioni accettabili da chiuse, si riesce ad individuare la candidata ideale, qualsiasi sia il budget a disposizione.
La mia scelta qualche anno fa cadde sulla Quechua QuickHiker III, una tenda robusta, facilissima da montare, spaziosa, con due ingressi e due absidi e che chiusa ingombra il giusto (un rotolo da 40x18cm).
Si tratta di una tenda tre stagioni, ma ovviamente viene utilizzata in coppia nel periodo che va dalla primavera all’autunno, quindi è perfetta.
Unica modifica, ho sostituito i picchetti di serie (peraltro ottimi) con un set di picchetti in.. titanio.
Si, avete letto bene.
Costicchiano un po’ (io li pagai circa 4 euro l’uno), ma è un investimento per la vita. Li comprate una volta e non ci pensate più, se avete più tende li passate da una all’altra e si piantano veramente ovunque (anche nell’asfalto!) senza problemi.

Reparto “letto”.
Inutile sottolineare come i materassini del supermercato servano a ben poco nell’ottica di risparmiare spazio prezioso, serve orientarsi su qualcosa di più tecnico.
In questo caso, purtroppo, vale il detto “chi più spende meno spende”, per varie ragioni.
La prima è che riposare bene quando si è in viaggio è molto importante. Magari per una notte o due si dorme anche sui sassi, ma per periodi più lunghi è meglio qualcosa di più confortevole.
La seconda è che i materassini più costosi sono una garanzia in quanto a robustezza e caratteristiche generali.
Anche un normale materassino a 6 tubi una volta sgonfiato diventa molto piccolo, ma per gonfiarlo serve un sacco di tempo, per sgonfiarlo bene ne serve il doppio, l’isolamento è prossimo allo zero, e le valvoline (di solito uguali a quelle dei materassini da spiaggia) dopo un po’ cedono.
Un materassino come si deve, oltre a gonfiarsi e sgonfiarsi rapidamente ed isolare meglio, vi durerà una vita (non sto scherzando, i Therm-a-rest son garantiti a vita sul serio), quindi investite senza remore.
Quelli che usiamo per viaggiare sono proprio della Therm-a-rest: il mio è un NeoAir X-lite (che chiuso è più piccolo di una bottiglia da mezzo litro), quello della mia ragazza un NeoAir Venture. Assolutamente meravigliosi.

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..perché le dimensioni, contano..

L’X-lite lo apprezzerete se campeggiate anche col freddo (ha un fattore di isolamento più elevato), altrimenti potete orientarvi direttamente sul Venture.. costa molto meno, ha uno spessore maggiore e chiuso non è molto più grande.
Se dormite supini (o siete leggeri), gli autogonfianti da 3cm di spessore sono abbastanza compatti una volta arrotolati e rappresentano una buona soluzione, ma io non riesco a dormirci bene.
I sacchi a pelo estivi sono degli ottimi (purtroppo non più in produzione) quechua S15-ultralight, 15 gradi di temperatura confort e veramente piccolissimi una volta chiusi nella sacca di compressione.
Se fa più fresco, ci abbiniamo i liner di seta (non quelli di materiale sintetico) che abbassano di qualche grado la temperatura comfort. Se fa troppo caldo, dormiamo direttamente nei liner. Di norma quelli in seta costicchiano, ma su ebay potete acquistarli direttamente in oriente a cifre ridicole 🙂
Inutile dire che i “lenzuolini” in questione occupano pochissimo spazio.
Da qualche tempo tengo perennemente nella borsa anche un liner termico della Sea to Summit, il “Thermolite Reactor Extreme”, un saccoletto dall’alto potere isolante (grazie alle fibre cave di cui è composto) che dovrebbe garantire un incremento verso il basso della temperatura di comfort di ben 15°c una volta inserito nel sacco a pelo.
Forse non saranno effettivamente 15, ma dieci di sicuro, e per quello che pesa e ingombra vale la pena portarselo sempre dietro.
Ovviamente se sappiamo di dover andare prevalentemente in posti dove la notte fa più fresco, partiamo direttamente con dei sacchi a pelo più “consistenti”.
Per quanto riguarda i cuscini, gli ho dedicato un post apposito sul blog, lo trovate qui.. 🙂

Reparto “cucina”.

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L’MSR Quick-2, utile anche per giocare a Tetris..

Dopo aver girato per un po’ con kit improvvisati (ma funzionali), ho deciso di investire in qualcosa di più professionale ed ho optato per l’MSR quick 2.
Il kit comprende una pentola antiaderente da 1,5lt, una pentola da 2,5lt, un coperchio che funge anche da scolapasta, un manico sganciabile (adatto ad entrambe le pentole), due piatti col bordo alto, due bicchieri/tazze a doppia parete (mantengono la temperatura delle bevande, calde o fredde).
Il tutto viene racchiuso nella pentola più grande, per un ingombro finale di 19.7 x 12.7 cm.
E dentro c’è spazio pure per un piccolo tagliere in plastica (aggiunto da me, sagomato a misura partendo da un tagliere flessibile), due set di posate pieghevoli e una spugnetta per lavare il tutto.
In un piccolo astuccio a parte invece trovano spazio una paletta di legno (fondamentale), un barattolino di sale, una piccola bottiglia d’olio, il pepe, il peperoncino, l’aglio in polvere, un piccolo flaconcino di tabasco, un paio di bustine d’aceto, e l’accendino.
Ah, e una piccola bottiglina di sapone universale biodegradabile, ottimo anche per le stoviglie.
No, non mancano i coltelli: sono due fedeli victorinox e li tengo nella borsa da serbatoio, visto che fa comodo averli a portata di mano 🙂

Il fornello (un multicombustibile) viene diviso in due, nella sacca trova posto solo il bruciatore, la bottiglia col combustibile se ne sta attaccata all’esterno della valigia laterale.
Perché un fornello di questo tipo e non uno normale, alimentato a bombolette di gas?

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Al solito, io cucino e lei cazzeggia. Che mondo ingiusto..

Il motivo è abbastanza semplice: reperire le cartucce, siano esse a vite o a forare, in certe zone non è proprio immediato, mentre con un multicombustibile (o anche con un fornello alimentato solo a benzina) il problema non si pone. Siete in giro in moto, la benzina non manca.
Senza considerare che con il freddo l’efficienza della miscela di gas contenuta nelle cartucce diminuisce non poco.
Intendiamoci, per giri di pochi giorni vanno benissimo, ma se pianificate una vacanza di un paio di settimane, secondo me il multifuel vince a mani basse. Oltretutto il suo bruciatore lo potete attaccare anche alle cartucce di gas a vite, quindi non pone limiti. State via un paio di giorni, prendete la cartuccia piccola. State via venti giorni, vi portate la bottiglia della benzina.
Se avete amici che tendono a fidarsi troppo della riserva della moto, inoltre, la benzina la potete rimettere nel serbatoio dell’appiedato. Di solito non serve a molto, ma è un bel gesto, no? ^_^
Più versatile di così.. 🙂

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“..tranquillo, te la do io un po’ di benzina.. LOL!”

Capitolo accessori vari.
Ho citato il martello, indispensabile per piantare a dovere i picchetti della tenda (perché non penserete mica di cavarvela sempre con prati verdi e terreni soffici, vero?).

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..poca spesa, tanta resa!

La soluzione scelta per portarsi dietro un martello di metallo “vero” (quello in gomma si demolisce quando i picchetti incontrano terreno duro e c’è da picchiare forte), senza l’ingombro del martello classico, l’abbiamo trovata in un negozio cinese.
L’attrezzino che vedete in foto, dal costo irrisorio, ci accompagna da anni senza fare una piega. Testato su terreni di ogni tipo, ha resistito egregiamente ai maltrattamenti nonostante le perplessità iniziali.
La doccia portatile della Sea-To-Summit è un piccolo capolavoro.
Chiusa è poco più grande di un pacchetto di sigarette, aperta contiene ben 10 litri d’acqua, si può (ovviamente) appendere, ed è dotata di un rubinetto con flusso d’acqua regolabile.

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..perché “l’uomo ha da puzzà”, ma c’è un limite..

Si può usare come doccia (autonomia circa 8 minuti), come contenitore per una scorta d’acqua, e come sacca stagna per contenere biancheria o vestiti.
Ed eccoci alle seggiole.
Ovviamente si potrebbero benissimo usare le valigie laterali per sedersi, ma visto che noi le usiamo come tavolo (unendole con una piastra di alluminio), tocca portarsi dietro qualcos’altro.

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Non si direbbe, ma reggono anche me!

Ultimamente ho messo su due piccoli sgabelli in alluminio, poco ingombranti ed efficaci, ma nel garage ho due meravigliose seggiole “Monarch” della Alite Designs, comprate direttamente negli USA,  fantastiche anche per rilassarsi, leggere, o semplicemente chiacchierare davanti al fuoco.
Si, hanno solo due zampe, perché gli altri due punti di appoggio sono forniti dalle gambe di quello che si siede, senza alcuno sforzo.
Sono estremamente resistenti (la portata è di oltre 110kg), leggere (poco più di mezzo chilo l’una), e chiuse si riducono a due cilindri di circa 30cmx11cm.
Unico difetto, il costo.
Si vive benissimo anche senza, ovviamente, ma ogni tanto qualche sfizio bisogna toglierselo, no? 🙂

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Seggiole, tavolo, tenda, pentole, moto. E birre. C’è quasi tutto.. 🙂

 

..zoccoliamoci!

..ehm.. da dove iniziare?
Ok, cercherò di affrontare l’argomento con delicatezza.
Se dico “camel toe”, son pronto a scommettere che la prima cosa che vi viene in mente non è sicuramente qualcosa che ha a che fare con le moto.
E va BENISSIMO così 🙂
Se non vi viene in mente niente, andate su google immagini, fate una ricerca e poi continuiamo.
Fatto?
Ora smettetela di guardare le foto e scrivete nel motore di ricerca “camel toe side stand”.
Dovrebbe uscirvi qualcosa di molto più attinente al mondo delle due ruote.
Vi faccio un breve riassuntino.
Si tratta di una estensione fissata alla base del cavalletto laterale che aumenta la superficie di appoggio e fa in modo che il terreno (soprattutto se molliccio) non sprofondi troppo sotto il peso della vostra moto.
Perché non è affatto simpatico andare a dormire in tenda e svegliarsi la mattina con la moto a terra perché il terreno ha ceduto, magari in seguito alla pioggia della notte.
“Camel toe” letteralmente significa “zampa di cammello” (o “zoccolo di cammello”), e nel nostro caso l’accessorio viene chiamato così perché il principio di funzionamento è proprio quello della zampa del simpatico Camelide, la cui particolare forma allargata permette all’animale di camminare nella sabbia senza affondare.

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…so che avreste preferito foto di altri camel toe.. :p

Questo accessorio si può realizzare in mille modi, che vanno dalla lattina schiacciata appoggiata sotto al cavalletto (che va benissimo in emergenza), al classico sasso, fino alla piastrina di acciao saldata direttamente al cavalletto.
Poi ci sono le soluzioni eleganti e funzionali, ovvero le piastrine aggiuntive.
Tempo fa, dopo averne costruito una da solo, comprai quella della touratech sperando che non avesse i difetti di quella “home made”.
Beh, il suo lavoro lo svolge egregiamente, ma dopo pochi giorni di parcheggio su terreni morbidi, si piega la parte di acciaio inferiore su cui poggia tutto il peso della moto, facendo allentare la struttura “a sandwitch” (come si vede nella foto) e rendendo la piastra ballerina e rumorosa.
In pratica una volta al mese c’è da smontarla e ribattere a martellate la parte inferiore.
Esattamente come quella fatta in casa.

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Touratech: Fail!

Un affarone.

Girovagando sui soliti siti cinesi, qualche giorno fa, mi è capitata sott’occhio una piastra in alluminio, apparentemente ben fatta e dal prezzo abbastanza ridicolo.
Mi son detto “perché non provare?”.
Et voila, mano alla carta di credito e andare.
Passati i venti giorni canonici per le spedizioni standard dal paese asiatico, stamattina il postino mi ha recapitato la busta con l’oggetto.WP_20160301_11_01_26_Pro
Devo dire che è veramente ben costruito, la parte in alluminio inferiore è piuttosto spessa e non dovrebbe piegarsi, presenta una sede circolare per accogliere la parte terminale del cavalletto originale e permettere alla parte in alluminio superiore di accoppiarsi perfettamente con la base, grazie alle 4 viti a brugola che le collegano saldamente.
WP_20160301_11_48_18_ProPer tenere la piastra nella posizione voluta ed impedire che ruoti invece sono presenti 4 grani supplementari, da stringere una volta accoppiate le due sezioni.
Semplice, efficace, ed esteticamente niente male.
Vedremo come se la caverà nel lungo periodo, ma sono abbastanza fiducioso.
E considerato che la spesa è stata veramente esigua, poco più di 11 (si, undici) euro, vale la pena di fare una prova, no? 🙂
La trovate su Aliexpress.

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Balkan trip.. vacanza col botto!

Visto che al momento di usare la moto non se ne parla a causa di un diverbio con il menisco (ha vinto lui), ma un viaggio è sempre un viaggio e vale la pena di raccontarlo anche se è passato un po’ di tempo, ne approfitto per darvi in pasto un resoconto del giro del 2014.. uno dei più particolari e dei più intensi, per diversi motivi.

Quell’anno eravamo un po’ a corto di idee, stavamo vagliando diverse ipotesi (molte delle quali incompatibili con il tempo a disposizione), finché qualche amico ci suggerì di andare nel Peloponneso e visitare Monemvasia.
L’idea ci sembrò interessante, ma decidemmo di arrivarci partendo dall’alto e percorrendo tutta la regione dei Balcani, cercando di mescolare tappe “note” a luoghi e paesi meno frequentati dal turismo di massa.
Così decidemmo di prendere il traghetto ad Ancona ed iniziare la nostra cavalcata dalla vicina Croazia, scegliendo come prima tappa il Parco nazionale dei laghi di Plitvice, patrimonio dell’Unesco dal 1979.

Scorcio dei laghi di PLitvice

Scorcio dei laghi di Plitvice

33.000 ettari di terreno, due fiumi confluenti, 16 laghi in successione collegati fra loro da innumerevoli cascate scaturite da dighe calcaree naturali, mille tonalità di verde e azzurro.
Il posto è ovviamente molto turistico, ma è uno spettacolo veramente notevole ed imperdibile.
Dopo i laghi abbiamo attraversato la Bosnia, un paese ancora in parte incontaminato, con poche industrie e molto verde, un paese immerso in una natura rigogliosa con cui spesso bisogna scendere a patti (molte strade non di grande comunicazione, utili per risparmiare chilometri, passano sulle montagne ma sono sterrate.. divertimento aggiunto per noi!).
Abbiamo passato due notti in Bosnia, una a Travnik ed una a Mostar.
Travnik ci ha accolto con un atmosfera surreale, non capita tutti i giorni di passeggiare in una cittadina con i canti coranici in sottofondo, diffusi da altoparlanti.
Nella città convivono senza alcun problema diverse religioni (musulmani, cristiani ortodossi,cristiani cattolici e una minoranza di altri culti) ed etnie, non a caso nel 1998 ha ottenuto lo status ufficiale di UNHCR Open City, ovvero città protetta dall’Alto Commissariato ONU per i rifugiati in cui la popolazione delle diverse etnie vive insieme pacificamente..

Mostar, la città vecchia

Mostar, la città vecchia

A Mostar abbiamo avuto modo di constatare, per l’ennesima volta, la follia della guerra, i cui segni sono ancora ben evidenti fuori dalla città vecchia, recuperata assieme al famoso ponte (distrutto nel 1993 durante il conflitto per il controllo della città fra i croati bosniaci e i bosniaci musulmani) nel 2004.
Il Montenegro ci accoglie con l’aspra sinuosità del Tara canyon (il secondo canyon più profondo al mondo) e la visione mozzafiato del parco Nazionale del Durmitor, un susseguirsi incredibile di montagne modellate e disegnate dall’erosione costellate di piccoli laghi, una natura dalla bellezza rara e selvaggia, una zona non ancora invasa dal turismo peggiore ma al tempo stesso viva e vitale, da godere praticando sport (alpinismo, sci, parapendio, ciclismo alpinistico, rafting..), facendo delle camminate o semplicemente, come noi, passeggiandoci in mezzo con la moto, dondolandosi fra una curva e l’altra cercando di cogliere ogni sfumatura di quell’incredibile panorama e respirando a pieni polmoni l’aria frizzante.
Dalla montagna al mare, dopo il pernottamento nel Tara Canyon abbiamo fatto tappa a Kotor, meglio conosciuta come Cattaro.
Se la città, pur molto bella, ci ha un po’ deluso per via della sua esagerata vocazione turistica (che si riflette anche nei prezzi), ciò che la circonda invece merita una vista, soprattutto dall’alto.. la città è situata nelle Bocche di Cattaro, una serie di bacini riparati dal mare che costituiscono il più grande porto naturale dell’Adriatico e che, per la loro forma piuttosto frastagliata, sono considerati gli unici fiordi del mediterraneo..

La strada che porta al monastero di Ostrog

La strada che porta al monastero di Ostrog

E poi Kotor è una buona base di partenza per un giro nell’entroterra Montenegrino, un giro alla scoperta di piccoli paesi, di monasteri (come quello di Ostrog), di microscopiche stradine secondarie transitate solo dai pastori e dai pochi residenti, di formaggi e prosciutto.
Attraversare la piccola porzione d’Albania prevista dal percorso ci ha creato qualche apprensione, visto la mancanza della copertura per l’assistenza sanitaria, e il biglietto da visita del paese non è stato proprio dei migliori: appena superata la dogana, ci siamo trovati davanti il triste spettacolo di decine e decine di persone (per lo più donne con bambini) che chiedevano soldi alle auto ferme in coda, spettacolo che si è ripetuto puntualmente ad ogni semaforo finché non abbiamo lasciato la strada principale per addentrarci nell’Ulza Regional Nature Park, che si è rivelato piacevole da percorrere e ci ha portato senza intoppi a varcare il confine con la Macedonia.
All’interno del parco ci siamo imbattuti nell’incontro più pittoresco della vacanza: fermi a bordo strada, all’ombra di un albero, la zavorrina tira fuori il pane, una busta di salame e si prepara un panino.
Dopo qualche minuto vediamo arrivare in senso contrario una vecchissima Mercedes scolorita, di un qualche blu che aveva evidentemente  vissuto giorni migliori, che strombazza il clacson e ci saluta allegramente.
Ricambio il saluto e la Mercedes svolta bruscamente, parcheggiandosi di fianco a noi, contromano. Come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Teresa inizia a preoccuparsi, io cerco di restare indifferente, saluto e sorrido.
Il personaggio, che guidava a torso nudo, si mette la maglia (gesto apprezzatissimo, vista la temperatura e il relativo sudore) e scende, blaterando qualcosa in Albanese.
Ovviamente zero inglese e fra le poche parole che conosceva in italiano c’erano “mafia”, “Berlusconi” e “Juventus”. Perfetto.
Teresa, per cercare di rompere il ghiaccio, gli porge la busta di salame con l’intento di offrirgliene una fetta. Il tipo, soddisfatto e senza farsi il benché minimo problema, ringrazia, agguanta la busta di salame e la mette in macchina!
Per farla breve, alla fine non abbiamo capito esattamente cosa volesse.. continuava a ripetere il suo nome e quello di un posto, “Nikolin, Shkopet!!”, probabilmente aveva una casa da affittare lì.. gli abbiamo fatto capire che stavamo andando in Macedonia, e lui ha risposto “Macedonia! Poi dopo, Shkopet!”.

..una birra è sempre una buona idea :)

..una birra è sempre una buona idea 🙂

Alla fine ha voluto i nostri numeri di telefono (ovviamente non gli abbiamo dato quelli veri), ci ha lasciato il suo, e ci ha salutato calorosamente, con una stretta di mano Teresa e con un abbraccio e due baci il sottoscritto (che fortuna, eh!) come se fossimo vecchi amici.
Abbandonato il nostro folcloristico amico, siamo entrati in Macedonia, e dopo aver scartato Debar per il nostro pernottamento (non sembrava un granché), abbiamo fatto una tirata unica lungo la bella e gustosa statale R1201 e ci siamo concessi due notti a Ohrid, una gran bella sorpresa.
Città veramente carina (e ricca di storia) adagiata sulla riva orientale dell’omonimo lago, vivace, turistica ma non caciarona, con i negozi aperti fino a mezzanotte (compresi i barbieri, dove la gente si ritrova anche di sera per chiacchierare), un mercato coperto piuttosto grande dove si trova di tutto (dai generi alimentari agli articoli da ferramenta, passando per vestiti e scarpe) e un centro chiuso al traffico che arriva fino alla riva del lago dove è piacevolissimo passeggiare.
Ovviamente abbiamo visitato anche la fortezza di Samuil, che sovrasta la città, una delle più imponenti fortificazioni dei Balcani con una cinta muraria (tuttora integra) alta 16 metri e lunga 3 km, che ci ha offerto uno splendido panorama sulla città e sul lago.
Anche qui a Ohrid abbiamo incontrato un personaggio niente male, che appena arrivati in città ci ha letteralmente inseguito con la bicicletta (sfoggiando un’agilità insospettabile) fra un semaforo e l’altro per offrirci una stanza.. stanza che abbiamo accettato visto che il prezzo era ottimo, la posizione perfetta (e stranamente corrispondente alla descrizione) e il signore affidabile e simpatico 🙂
Lasciamo un po’ a malincuore la Macedonia per dirigerci verso la Grecia, la nostra prima tappa in terra ellenica saranno le Meteore.
Il tragitto non è lungo, e queste incredibili meraviglie della natura si svelano ai nostri occhi mano a mano che ci avviciniamo a Kalambaka, la nostra meta.
Troviamo un campeggio molto carino vicino al paese, scarichiamo i bagagli, montiamo la tenda, risaliamo sulla moto e facciamo il giro per ammirare le meteore da sopra, percorrendo la strada che ci gira intorno.

Le Meteore

Le Meteore

I monasteri ortodossi (ce ne sono sei ancora intatti dei 24 originari, di cui due ancora abitati da suore) costruiti su quegli spuntoni di roccia arenaria che paiono spuntati dal nulla, emersi dal sottosuolo, sono impressionanti da vedere, forse uno dei luoghi più straordinari del mondo.
La cittadina di Kalambaka non offre grandi spunti, ma ha la fortuna di essere collocata nel posto giusto per vivere del viavai di turisti che vengono ad ammirare le meteore.
Il tragitto del giorno dopo, che ci porta nel Peloponneso, si snoda per lo più su strade secondarie e di montagna. Sulla carta i chilometri da percorrere non sono molti, ma su queste stradine tempi di percorrenza si dilatano.
Il caldo tremendo inizia a farsi sentire e lungo il percorso ci fermiamo ogni volta che troviamo una fontana per bere, rinfrescarci e riempire le bottiglie (ovviamente il camelback è rimasto a casa.. furbissimi, noi).
Scendendo verso sud attraversiamo un bellissimo parco, dal nome impronunciabile (“An. Klitys-Oros Tymfristou“, insomma questo qui), e vicino a Gavros ci fermiamo a pranzo in un locale abbastanza tipico, di quelli dove vai davanti allo spiedo e ti scegli da solo la carne..
Dopo aver mangiato cosine leggere come agnello e salsicciotti ripeni di fegato, proseguiamo (a fatica) verso sud e finalmente vicino a Pitsineika intravediamo, in lontananza, il mare.. 🙂
Attraversiamo l’imponente ponte di Patrasso (ponte Rion Antirion, già soprannominato “Ponte di Poseidone”), che con i suoi quasi 3km è il ponte strallato più lungo del mondo, e ci mettiamo alla ricerca di un hotel.
Ancora non sappiamo che in quell’albergo ci torneremo qualche giorno dopo..
La mattina seguente partiamo di buon ora, per arrivare a Monemvasia c’è da attraversare tutto il peloponneso e ripetere la solita via crucis di fermate ad ogni fontana per via del caldo.
Il paesaggio in questa zona non offre molto, scendiamo rapidi passando per Lampeia, Levidi, Sparta, ed arriviamo a Gefira nel primo pomeriggio, con tutto il tempo per rilassarci 🙂
Troviamo una stanza (non ci sono campeggi nelle vicinanze) proprio nel centro del paese ad una cifra accettabile, parcheggiamo la moto, scarichiamo tutto, ci sistemiamo ed andiamo a gironzolare per il paese e fare spesa per la cena.
E ci scappa pure un bel bagno in mare al tramonto 🙂
Il terrazzino della camera è perfetto per cenare, cuciniamo sfruttando l’attrezzatura da campeggio e ci godiamo l’atmosfera di totale relax, coadiuvata dalla grappa che avevamo messo al fresco nel freezer 🙂

Eccoci arrivati a Monemvasia! ;)

Eccoci arrivati a Monemvasia! 😉

La rocca di Monemvasia (soprannominata la Gibilterra del Mediterraneo orientale), per quanto turistica, è una piccola perla.. arroccata su uno scoglio, collegata alla terraferma da una striscia artificiale di terra lunga 400 metri, con un unica porta di accesso (Il nome del borgo deriva proprio da due parole greche, “mone” e “emvassi”, che significano “singolo” e “ingresso”), è veramente ben conservata.
Gli edifici del borgo sono interamente costruiti in pietra, si possono trovare influenze veneziane, bizantine e turche, e i suoi vicoli lastricati strettissimi (animati da locali, negozi, hotel e ristoranti un po’ troppo costosi) offrono scorci molto suggestivi e fanno venire voglia di perdersi in quel dedalo di stradine d’altri tempi..
Due giorni in questo piccolo paradiso, ed è tempo di puntare la ruota della moto verso nord ed iniziare il riavvicinamento.
I nostri piani sono di fermarci due notti da qualche parte vicino a Patrasso e fare un paio di giorni di mare/sdraio/mojito prima di imbarcarci per tornare a casa.
Non scegliamo un posto preciso, iniziamo a risalire percorrendo la costa occidentale del Peloponneso fino a Kalamata, poi tagliamo passando nell’aspro entroterra per ritrovare il mare a Kalo Nero, gustandoci il paesaggio ed i paesi.
Saliamo ancora lungo la costa, ed arrivati all’altezza di Amaliada avvistiamo un campeggio sulla spiaggia che sembra perfetto.
Ci accampiamo, ci buttiamo in spiaggia, facciamo un bagno rigenerante e nel tardo pomeriggio prendiamo la moto per andare in paese a prelevare e fare la spesa.

E qui avviene il fattaccio.

Arriva il “momento del bischero”, come l’ho definito nella nota scritta all’epoca su Facebook, che riporto pari pari..

Il momento del bischero

“Lo chiamano in molti modi.. karma, legge del contrappasso, e via dicendo… ma dalle mie parti per definire certe situazioni si usa una frase semplice e decisamente esplicativa, ovvero “il momento del bischero”.
Cos’è il momento del bischero?
E’ quando fai una cazzata, consapevole del fatto che è una cazzata, e invece di andarti bene ti succede qualcosa. Ecco, quello è il momento del bischero.
Il nostro è stato pochi giorni fa in Grecia, precisamente ad Amaliada, il terz’ultimo giorno di ferie.
Tutti sanno quanto vada ripetendo da sempre dell’importanza dell’abbigliamento tecnico in moto, che l’asfalto fa male, che le croste sono una rotta di coglioni, e quant’altro.
Benissimo.
Infatti di solito lo indosso sempre.
Pero’ poi succede che una fottuta volta vieni via dalla spiaggia, bello rilassato, e realizzi che per comprare la cena servono i soldi visto che il market del campeggio non accetta le carte.
Sempre bello rilassato, dici “ok, andiamo in paese al bancomat”.
E aggiungi “andiamo così, tanto son solo tre chilometri”.
E prendi la moto e parti, in sandali, pantaloncini ancora umidi e maglietta. E casco, quello si, anche se non lo usa nessuno.
Sai che è una stronzata, ma un po’ di leggerezza ogni tanto, e che cazzo.
Ma il momento del bischero è lì, in agguato, pronto a fare ufficialmente di te un gran bischero, per l’appunto.
E succede che arriva.
Mentre cerchi di capire dove svoltare e dove non svoltare in un dedalo di strade perpendicolari con divieti assortiti, evidentemente troppo rilassato, senti la voce della zavorrina che ti grida “lo stoooop!”. Vedi il motorino che arriva da sinistra, freni, la moto sull’asfalto liscio schizza via come se avessi sotto il linoleum, e in un attimo la botta tremenda contro lo scooter verdognolo (bruttino, peraltro).
Ecco, intanto che tu, volando per terra, pensi “CAZZO! CAZZO! CAZZISSIMO! CAZZO!” (cit.) realizzi che è arrivato il momento del bischero, e sarà un pessimo momento.
Per farla breve, diciamo subito che a parte la botta (con conseguenti dolori in posti improbabili) e la notte in ospedale per accertamenti alla povera incolpevole zavorrina, ce la siamo cavata con relativamente poco, giusto qualche bella grattata con ferite da coccolare amorevolmente per i giorni a seguire.
La kappona, da gran combattente, non ha versato nemmeno una lacrima sull’asfalto e una volta rimessa in piedi con due lavoretti ci ha riportato a casa senza problemi.
Il motorino verdognolo è andato praticamente distrutto, ma tanto era bruttino, davvero.
Il conducente del motorino brutto se l’è cavata con qualche escoriazione anche se non aveva il casco, ma a ricordargli che doveva metterlo ci hanno pensato i poliziotti appioppandogli un verbale da 300 euro (più un’altro da 250, non so per cosa).”

Dopo il fattaccio, abbiamo dovuto recuperare le ultime forze per spostarci doloranti da Amaliada e passare l’ultima notte più vicini al traghetto, e siamo tornati a Patrasso nel posto che ci aveva accolto all’andata e conoscevamo bene, un hotel tranquillo e fuori dal caos, ideale per raccogliere idee, forze, leccarsi le ferite, cambiarsi le medicazioni e pianificare il rientro in traghetto (rigorosamente con passaggio ponte) in modo che non fosse troppo traumatico.

Questo è il resoconto del nostro viaggio.
Come scrivevo all’inizio, un mix di sensazioni piuttosto forte..
Le sensazioni positive, molteplici e varie, per i luoghi visti lungo il percorso e molto diversi fra loro.
Le sensazioni diametralmente opposte per quello che è successo, per l’impotenza nel momento in cui realizzi che non puoi far nulla per evitare l’inevitabile, per gli attimi di paura nel vedere la zavorrina sdraiata a terra, immobile.
La sensazione di sollievo nel capire che alla fine tutto si risolverà con un grosso spavento, un po’ di dolore e qualche segno sulla pelle che ti ricorderà sempre di non fare cazzate.
La sensazione di orgoglio per essere usciti a testa alta da una di quelle situazioni che mettono a dura prova i viaggiatori, soprattutto quelli in coppia.

Perché si, alla fine, ne siamo usciti benissimo, consapevoli, complici e rafforzati.
E con una storia da raccontare.

Siete arrivati a leggere davvero fin qui?
Benissimo, allora vi siete meritati il link alle foto (si, ce ne sono molte altre, per leggere le didascalie aprite l’immagine e cliccate sulla “i” cerchiata in alto a destra! )
Spero che vi piacciano 🙂

...la traccia del nostro giretto, circa 3600km in totale.

…la traccia del nostro giretto, circa 3600km in totale.

Art Attack! ^_^

Qualche tempo fa, al mio rientro a casa, ho trovato ad aspettarmi un pacco piuttosto voluminoso.
Era il meraviglioso cupolino Evo6 di Rade Garage, oggetto a cui anelavo da un bel po’ di tempo e che la mia ragazza ha pensato di regalarmi per l’imminente compleanno (lei si che sa come far felice un motociclista! 😀 ).
Appena montato, oltre ad ammirare la nuova linea dell’Adventure (il cupolino è più verticale dell’originale e le dona un adorabile look “rally”), ho subito messo in moto i neuroni per cercare di inventarmi una grafica, visto che tutto nero risultava un po’ “pesantone”.
Dopo qualche simulazione al computer per avere un’idea delle varie soluzioni (e scegliere alal fine quella più tamarra, ovviamente) son passato all’azione per fabbricarmi gli adesivi necessari.
Qualcuno mi ha chiesto come si fa una cosa del genere, e così ho pensato di scrivere questo post a mò di piccolo tutorial per chi volesse cimentarsi nell’impresa.
Cosa serve?
Innanzitutto le idee chiare.
Perché occorre avere ben presente cosa si può fare con metodi artigianali e cosa no.
Se volete delle scritte piccole, o cose troppo elaborate, probabilmente non ce la farete, in quel caso meglio rivolgersi agli appositi servizi di stampa.
Se però la vostra idea contempla scritte a caratteri piuttosto grandi e non troppo elaborati, linee, forme regolari.. beh, le probabilità di successo aumentano.
Oltre alle citate “idee chiare”, servono ovviamente dei fogli di vinile adesivo, con i colori che vi servono.
Si trovano senza grossi problemi anche in alcuni Brico, io qui a Lucca li prendo da “Bocci Carta”.
Gli altri strumenti necessari sono un paio di forbici ben affilate, un tagliabalsa con la punta sottile, un pennarello indelebile a punta fine, un righello, un curvilineo, delle pinzette per francobolli (o quelle che usa la vostra donna per “tirarsi” le ciglia 😀 ), del nastro adesivo, del nastro carta e abbondante colla vinil.. ah no, scusate, la colla non serve 🙂

La base di partenza sono le grafiche (nel mio caso alcuni fregi, la scritta “990” con lo stesso font usato sulle fiancate della moto, e la “R” arancione) stampate a grandezza naturale.
Serve un po’ di dimestichezza con i programmi di grafica: io le scritte “990” e la “R” le ho ricavate partendo dalle foto (in buona risoluzione) di quelle sulla fiancata, scontornando.
Ad ogni modo questo è il risultato, i tre numeri esattamente delle dimensioni che mi servono stampati ognuno su un foglio, da ritagliare.

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A questo punto si sovrappone il numero ritagliato al vinile del colore scelto, si fissa da un lato e poi col righello e il tagliabalsa si incidono le linee del contorno.

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Ovviamente, se la vostra stampa non presenta solo linee diritte dovrete usare il curvilineo.
Dovreste arrivare ad un risultato del genere.

WP_20160122_11_22_04_ProSiccome io amo complicarmi la vita ed avevo deciso di avere la scritta col solo bordo bianco e l’interno vuoto, ho dovuto intagliare anche l’interno.
Ho quindi tracciato le linee di taglio con il pennarello indelebile, e poi con il righello e il tagliabalsa le ho incise, facendo attenzione a non “sbordare” nei punti di intersezione.
Il risultato è questo..

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Adesso, se avete fatto tutte le cosine per bene, dovreste riuscire a tirare via la parte interna. Aiutatevi con le pinzette e se in qualche punto il taglio non è arrivato a congiungersi, incidete col tagliabalsa.

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Togliete anche la parte esterna e dovrebbe rimanervi così.

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Ora staccate due pezzi di nastro carta e piazzateli sopra al vostro adesivo in modo da coprirlo completamente, questo vi servirà per poterlo maneggiare comodamente e posizionarlo con precisione.

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Adesso il vostro adesivo è pronto. Rimuovete il retro, scaldatelo leggermente col phon (serve per ammorbidirlo e farlo aderire bene) se come me lavorate in un garage non riscaldato, posizionatelo (eventualmente fatevi delle linee guida col nastro carta), schiacciate bene (se l’adesivo è grande iniziate da una parte facendo attenzione a non lasciare bolle d’aria), e infine togliete il nastro carta con delicatezza.
Ripetete la procedura per ogni componente della vostra grafica, et voila!

Questo è il mio risultato.

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Ovviamente guardandolo da vicino si nota qualche piccola imperfezione, ma la soddisfazione di aver fatto tutto da solo, a mano, è enorme.
Ora però vado a comprare un plotter da taglio.. :p

Presto, alzate gli scudi!

A detta di molti il paramotore originale della KTM Adventure non è propriamente un granché, sia per la resistenza agli urti che come protettività generale.
Per la resistenza agli urti mi sono sempre preoccupato poco, la mia è una “R”, ha 32cm di luce a terra, quindi il rischio di prendere una botta sotto così forte da romperlo è minore rispetto alle Adventure “basse”.
Per la protettività invece il problema me lo sono posto più volte, visto che col paramotore di serie entrambi i carter rimangono completamente esposti a sassate e botte varie.
Le soluzioni alternative sono molte, più o meno per tutte le tasche, ognuna con le sue particolarità.
Ben poche possono però unire robustezza, leggerezza ed estetica, visto che la maggior parte dei paramotore aftermarket in alluminio o materiali simili oltre ad essere pesantucci sembrano delle cassette della frutta tagliate a metà e messe sotto al motore.
Qui siamo di fronte ad un prodotto che, oltre ad essere ineccepibile dal punto di vista strutturale e funzionale, è anche bellissimo e si integra sinuosamente con la linea della moto.
Sto parlando del paramotore in materiale composito prodotto da Landmark.works, il regalo di natale per la mia Adventure 🙂

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Non lasciatevi ingannare dalle foto, il paracoppa ovviamente non è costruito solo in carbonio, altrimenti durerebbe ben poco.
Il carbonio è usato negli strati esterni, per un fattore estetico, in realtà il “cuore” è costituito da tessuti in Kevlar e altri materiali specificamente scelti per aumentarne la resistenza agli urti.
Il numero di strati utilizzati è variabile, in alcuni punti si arriva fino a 10, così come lo spessore, che varia dai 2mm circa ai 5mm nelle zone che necessitano di maggiore resistenza.
Gli spessori giocano un ruolo importantissimo: a parità di strati di tessuto impiegati, più questi lavorano su spessori maggiori meglio è. In fase di progetto è molto meglio prevedere sezioni con anime interne più leggere e meno costose ma che aumentino lo spessore piuttosto che riempire tutto con strati di tessuto performante che, invece, va impiegato via via che ci si allontana dal “cuore” del pezzo, nelle zone più esterne della sezione.
La differenziazione dello spessore, unita alla forma scatolata, ha consentito di contenere il peso in poco meno di 1300 grammi (500 meno di quello originale) ma di ottenere una robustezza molto elevata.

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“ok, la dieta ha funzionato”

Sul capitolo “robustezza” vale la pena di spendere qualche parola in più.
Questo è il pensiero di Marco, titolare di Landmark.works:
“Bisogna chiarire cosa ci si aspetta dal nostro paramotore: se serve come protezione dai sassi o dalle botte tipiche della guida fuoristrada è un conto, se invece pretendiamo che resista da solo all’atterraggio di 200 kg di moto su un sasso che sta 1 metro sotto, magari di traverso, allora la cosa può essere diversa.
E questo vale per tutti i paracoppa per l’Adventure 950/990.
Il tallone d’Achille sta nel fatto che nella nostra bella motina non c’è una culla del telaio a fare da appoggio anche lateralmente.
Il lavoro lo fanno SOLO gli attacchi e soprattutto il puntone di appoggio sul carter motore, ma il telaio ad aiutarti non c’è…”

Questo per capire quali sono i limiti strutturali di un paracoppa per questa moto, cosa può fare e cosa no.

Detto questo, c’è da sottolineare il fatto che la forma più “sfuggente” permette una migliore scorrevolezza sugli ostacoli in caso di uso gravoso, ad esempio nei canali o sulle pietre.
Al tempo stesso, il fatto di essere più largo dell’originale dovrebbe eliminare il problema dell’effetto “tsunami” nei guadi (ovvero il ritrovarsi sommerso dall’acqua che sale dal basso) ed aumenta la protettività dei carter. Come si può vedere dalle foto, sono entrambi ben riparati, soprattutto quello sinistro.
Le due feritoie frontali assicurano un buon flusso d’aria al basamento e, soprattutto, al regolatore di tensione (che ringrazia sentitamente).

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Il montaggio è semplicissimo, si utilizzano le viti e i gommini dell’originale, questione di pochi minuti.

Che aggiungere?
Ah, si. L’ho già detto, ma è bellissimo 🙂

Difetti?
Si, uno, di poco conto.
Se, come me, avete i piedini di fata (46), vi può capitare di urtare con la punta del piede sinistro nel lembo che protegge il carter, forse un po’ troppo vicino alla leva del cambio..

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“bello bello bello in modo assurdo” (cit.)

 

Insomma, non lasciatevi spaventare dal prezzo, questo prodotto è di un’altra categoria rispetto ai classici paracoppa in alluminio e si tratta di un oggetto studiato e costruito in Italia (e, soprattutto, realizzato a mano).
E se avete lo scarico con i collettori a passaggio basso, ne esiste una versione apposita.

A proposito della costruzione, ora vi racconto qualcosa in più su come viene realizzato, o meglio ve lo faccio raccontare direttamente dal produttore .. 🙂

La tecnologia utilizzata è quella del “sottovuoto per infusione”, non si utilizza l’autoclave.
Si impiegano resine specifiche che polimerizzano a temperatura ambiente (comunque oltre i 20°C) ma necessitano di una post polimerizzazione del prodotto finito, una sorta di “stagionatura”, a temperature più elevate.
Molto brevemente: si laminano i vari tessuti a freddo, aggiungendo opportuni tessuti ausiliari (che aiutano il processo ma poi vanno buttati) poi si realizza il sacco del vuoto prevedendo un’aspirazione dell’aria da una parte e un ingresso per la resina dall’altra.
Si tappa quest’ultimo, si aspira l’interno del sacco facendo il vuoto e dopo aver controllato che tutto sia a posto si apre il condotto di ingresso della resina che viene richiamata all’interno del sacco andando ad impregnare i tessuti.
Al momento opportuno si chiude l’ingresso della resina e si tiene l’aspirazione attiva fino alla polimerizzazione.
In questa fase ci sono un po’ di variabili da tenere d’occhio e con le quali giocare (pressione, temperatura ecc..).
Poi, a estrazione avvenuta, si passa alla “stagionatura”.
Questo sistema si utilizza per grandi pezzi (es. pale dei generatori eolici) o dove non è conveniente l’utilizzo dell’autoclave (che rappresenta un grosso investimento). ll controllo della quantità di resina nel manufatto è comunque molto buono.

Rispetto alla polimerizzazione in autoclave, abbiamo i seguenti vantaggi/svantaggi.

Vantaggi: Basso investimento iniziale, nessun problema di scadenza dei prodotti, la laminazione dei materiali è a freddo e non ha limiti di tempo perchè la resina viene immessa alla fine.

Svantaggi: laminazione dei materiali asciutti più complessa e delicata, tempi di lavorazione e cicli di polimerizzazione più lunghi (quindi produttività più bassa). In generale serve una maggiore attenzione durante tutto il processo

Alcune immagini della lavorazione:

posizionamento_kevlar

Posizionamento dell’anima poly-kevlar sullo stampo

Il pezzo chiuso all'interno del sacco a vuoto

Il pezzo chiuso all’interno del sacco a vuoto

avanzamento_resina

L’avanzamento della resina